SOMMA VESUVIANA – Gli chef che arriveranno a Somma Vesuviana sabato mattina hanno una storia speciale alle spalle: da vittime della violenza delle Brigate Rosse al volontariato in carcere.
Marialuisa Zaia e Massimo Pulicati sono i gestori del ristorante “Oste della Bon’Ora” di Grottaferrata rappresentano un punto fermo nella ristorazione di qualità. Singolare la vicenda che li ha portati a scegliere la professione di cuochi. Marialuisa e Massimo sono nipoti di Germana Stefanini, operatrice carceraria che il 28 dicembre 1982 fu sequestrata da un commando delle Brigate rosse nella sua abitazione a Roma, fu sottoposta alla farsa di “processo popolare” e poi trucidata. Anche Marialuisa e Massimo erano guardie carcerarie ed abitavamo vicino alla zia sola che accudivano come una mamma. I brigatisti avevano intenzione di fare una strage e quando Marialuisa la sera del 28 dicembre 1982, preoccupata dai rumori che provenivano dall’appartamento chiese alla zia se avesse bisogno di qualcosa, fu invitata a non uscire assolutamente di casa. “In pratica – ricorda Massimo Pulicati – la zia ci ha salvato la vita”. Germana Stefanini fu ammazzata quella stessa sera con un colpo di pistola alla nuca e l’episodio suscitò in Italia e all’estero grande clamore. Molte detenute del carcere di Rebibbia si dissociarono e criticarono apertamente la folle iniziativa dei brigatisti che colpiva una persona amata e rispettata da tutti. Da quel momento per Marialuisa e Massimo la vita è cambiata. Si sono sposati, hanno lasciato il lavoro ed hanno aperto il ristorante, ricevendo grande consenso dalla critica. “Per ricordare zia, insignita di medaglia d’oro al valore civile – afferma Marialuisa – abbiamo pensato di ritornare nelle carceri per pagare un debito di riconoscenza. Lavoravo nel nido delle detenute. Ci sono tante persone buone ed è giusto offrire delle opportunità a donne che stanno pagando per gli errori commessi”. In pratica i gestori dell’Oste della Bon’Ora hanno avviato insieme a Slow food Lazio un progetto per insegnare ai carcerati l’arte della cucina. Si parte da Rebibbia per impegnare tutte le carceri italiane. Lo scopo del progetto è proprio quello di mettere in condizione le detenute di avere un lavoro più dignitoso dopo l’espiazione della pena. “Molte recluse – riprende Marialuisa – sono straniere. Non vogliamo che entrino nelle cucine solo per lavare i piatti. Insegneremo a fare il “cacio e pepe”, “l’amatriciana” ed altri piatti romani. E se faranno le badanti potranno allietare gli anziani che servono con i piatti tipici della tradizione romana”. Slow food Lazio fornirà assistenza e materiali gratuiti per i corsi.
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