Napoli. Domenica 30 gennaio alle 17.00 torna un titolo assente da 20 anni dal palcoscenico sancarliano, La Sonnambula di Vincenzo Bellini.
Melodramma serio in due atti su libretto di Felice Romani La Sonnambula sarà diretta da Lorenzo Passerini, giovane e già affermato direttore, per la prima volta alla guida di Orchestra e Coro del Massimo napoletano. Maestro del Coro è José Luis Basso. Protagonista, nel ruolo di Amina è Jessica Pratt. Accanto a lei Francesco Demuro nel ruolo di Elvino, il russo Alexander Vinogradov nei panni di Rodolfo e Manuela Custer in quelli di Teresa. Completano il cast Valentina Varriale (Lisa), Ignas Melnikas (Alessio), Walter Omaggio (Un notaro). Lo spettacolo è in forma di concerto.
Dalla Guida all’ascolto del programma di sala
Di Maria Rosaria De Luca
La genesi di Sonnambula va riferita all’ultimo scorcio dell’anno 1830, quando Bellini e Romani decisero, per probabili motivi di censura, di accantonare il progetto di un’opera tratta da Hernani di Victor Hugo e di rivolgersi a un soggetto di genere idilliaco campestre, una comédie-vaudeville dal titolo La Villageoise somnambule ou Les deux fiancées di François-Victor-Armand d’Artois (detto anche Dartois) e Jean-Henri Dupin, messa in scena al Théâtre des Variétés parigino nell’ottobre del 1827, a sua volta riadattamento di un ballet-pantomime, La Somnambule, ou L’Arrivée d’un nouveau Seigneur, di Eugène Scribe e Jean-Pierre Aumer per la musica di Ferdinand Hérold, dato all’Opéra di Parigi appena un mese prima. La sonnambula fu scritta per una compagnia vocale che annoverava due astri del belcanto come il soprano Giuditta Pasta e il tenore Giovanni Battista Rubini. Se Rubini era stato un collaboratore assiduo di Bellini (aveva sostenuto le parti di Gernando nella Bianca e di Gualtiero nel Pirata), l’avere per la prima volta a disposizione una primadonna come la Pasta, dalle spiccate doti vocali e, soprattutto, drammatiche, galvanizzò il musicista. Con La sonnambula, da poeta e musicista concepita e dettata in meno di due mesi, la Pasta consegnò il ritratto esemplare di un personaggio tenero e accorato, quasi emanazione del paesaggio alpestre, idilliaco e incontaminato, in cui Romani situò la vicenda. In definitiva, si tratta di un’opera semiseria, dalla quale, in linea con le tendenze romantiche professate dal musicista, è stata espunta qualsiasi connotazione giocosa, in modo da conferirle un carattere «autentico e ideale allo stesso tempo»; una storia tenera e innocente di due fidanzati svizzeri condita con l’interesse di moda per il sonnambulismo e i fenomeni dell’inconscio, causa di un temporaneo malinteso che dinamizza una drammaturgia essenzialmente statica nell’episodio dell’improvviso rifiuto delle nozze per sospetta infedeltà della sposa e in quello dell’eroina che cammina pericolosamente nel sonno sul tetto del mulino. Rappresentata con enorme successo al Teatro Carcano di Milano la sera del 6 marzo 1831, la ‘favola’ di Amina ed Elvino segna altresì un punto d’arrivo nella parabola creativa di Bellini, per quanto attiene alla continuità e intensità del respiro drammatico. Il canto vi è esposto nella sua nudità, privo di accompagnamento o sostenuto da radi accordi pizzicati o arpeggiati, gli ornamenti della linea vocale arricchiscono di sfumature inedite il ventaglio espressivo del canto. Tali prerogative si affermano con particolare eloquenza nella cavatina di Amina («Come per me sereno»), un estatico inno di gioia all’amore espresso da una promessa sposa, in quella di Elvino («Prendi, l’anel ti dono»), trattata alla stregua di un duetto (insieme ad Amina), nel duettino Amina-Elvino («Son geloso del zefiro errante»), innescato da uno sfogo di gelosia, ma risolto, nell’a due, in «una sfida di trilli, di volate e di gorgheggi» («L’Eco», 9 marzo 1831), specchio della riconquistata (seppur temporaneamente) comunione amorosa; e raggiungono l’apice nel cantabile dell’aria conclusiva, «Ah! non credea mirarti», posta sullo snodo risolutivo dell’intera vicenda. Il carattere singolare della melodia belliniana promana da un calibrato impiego dei mezzi musicali nell’àmbito dei codici linguistici e morfologici dominanti nel melodramma del primo Ottocento. Queste melodie seguono, infatti, uno schema simmetrico d’indubbia efficacia comunicativa, in grado di coniugare unità e varietà, la cosiddetta lyric form o ‘struttura del cantabile’, che nella sua versione canonica dispone due quartine di versi in 16 battute musicali (due per ogni verso, secondo lo schema: a4 a’4 b4 a”4 ovvero, in alcuni casi, a4 a’4 b4 c4, dove a, b e c indicano i membri della frase melodica e i numeri la loro estensione espressa in battute) basate sui principii dell’isoritmia, del parallelismo melodico e di un giro armonico standard, che garantiscono un decorso melodico immediatamente comprensibile da parte di tutti i pubblici di tutti i tempi. Anche Bellini assume in toto il principio compositivo della simmetria e della ‘quadratura’: di norma infatti, dal Pirata in poi, le sue melodie si lasciano ricondurre a tale schema. Tuttavia, egli se ne discosta in alcuni numeri delle opere mature, laddove decide di sfruttare con sapienza questo sistema rigoroso ma flessibile e versatile per raggiungere scopi emozionali e drammatici. Nel caso del cantabile di Amina (ma lo stesso vale per «Casta diva» in Norma, per «Qui la voce sua soave» nei Puritani), la quadratura è insidiata dall’interno, attraverso una serie di accorgimenti che pur senza metterla fuori giuoco dilatano o restringono la simmetria, velandola e camuffandola, così da restituire il senso di un discorso ininterrotto, laddove la programmatica dilazione della cadenza fomenta l’anelito di un appagamento sentimentale tanto più intenso quanto più dolentemente procrastinato: in questo caso Bellini infrange la regolarità ritmica tramite il ricorso a sincopi e ad altre sfasature metriche, e al ritardo della cadenza sulla tonica associa una varietà di disegni ritmici, così che per un attimo il giro della frase sembra vagare senza mèta (come la mente di Amina sconvolta dal trauma dell’amore perduto), prima di approdare alla sua sconsolata conclusione e placarsi infine nella rassegnazione della cadenza conclusiva.Il recitativo posto all’inizio di questa scena finale, immediatamente prima del cantabile, include un motivo di reminiscenza, desunto dalla cavatina di Elvino «Prendi, l’anel ti dono»: la citazione, in questo caso, svolge una ben precisa funzione drammatica, quella di dar voce all’insorgere di un ricordo straziante che provoca un disperato anelito alla felicità perduta. Si tratta di un espediente tipico delle scene di pazzia (il sonnambulismo è, evidentemente, considerato una sottospecie dell’alienazione mentale), da Bellini già adottato, in associazione con il timbro puro di un legno solista, nel recitativo che apre il quadro conclusivo del Pirata, e infine ripreso, con esiti altissimi, nella scena di Elvira nel secondo atto dei Puritani. In Bellini i nodi drammatici scaturiscono dalla condizione interiore dei personaggi, riflettono i loro dissidi più reconditi: appaiono inestricabili, tuttavia, in quanto indipendenti dalla volontà umana, dati a priori, comminati da una forza misteriosa e incontrollabile, la fatalità. E nodi siffatti possono giungere, talora, a risoluzione solo se le forze in campo addivengono a una comunione sentimentale, annullando le tensioni nella com-passione, nella pietas reciproca. Ciò avviene anche in Sonnambula: è nella presa di coscienza da parte di Elvino della propria cieca e ottusa gelosia che si ricompone l’equilibrio infranto nella coppia di amanti e, più in generale, nella comunità civile del villaggio alpestre.
Teatro di San Carlo
Domenica 30 gennaio 2022, ore 17:00
Vincenzo Bellini
LA SONNAMBULA
Melodramma serio in due atti
libretto di Felice Romani
Direttore | Lorenzo Passerini♭
Interpreti
Rodolfo | Alexander Vinogradov
Teresa | Manuela Custer
Amina | Jessica Pratt
Elvino | Francesco Demuro
Lisa | Valentina Varriale
Alessio | Ignas Melnikas♯
Un notaro | Walter Omaggio♮
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Maestro del Coro | José Luis Basso
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