lunedì 25 Novembre 2024
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“Qual è oggi Il senso di fare il medico?” Analisi dello psichiatra e scrittore Lanzaro


di Massimo Lanzaro

(Scrittore, Psichiatra, Psicoterapeuta, Dirigente Medico)

Un tema purtroppo molto attuale, soprattutto al sud è quello del “rischio di burnout per i medici”; di recente ne ha parlato Alberto Scanni sul Corriere. Ci si interroga sul senso di fare il dottore oggi, come capita al sottoscritto, e sui fatti preoccupanti che riguardano la nostra professione. Il dipartimento di salute mentale dove lavoro come psichiatra in questi giorni ha bandito un concorso per assumere dieci colleghi, verosimilmente perché quelli presenti stanno “scappando via”. Non siamo soli: recentemente leggo titoli come “Sanità, la grande fuga dei medici dagli ospedali italiani tra aggressioni, salari bassi e turni massacranti”.

Sebbene in letteratura esistano illazioni sul fatto il burnout possa essere una “fashionable diagnosis” (diagnosi di moda) ed “una scusa medica per astenersi dal lavoro” (Kaschka WP, 2011), esiste invece un’ampia mole di robusti studi sull’aumento del fenomeno dello stress lavoro-correlato. A differenza del passato oggi l’INAIL lo considera come una malattia professionale. Un problema che, se non affrontato, può condurre a depressione, ansia, PTSD, uso di sostanze, fino a pensieri di suicidi (me ne sono capitati purtroppo, di colleghi con queste problematiche). Non sono solo questioni personali, però, perché un medico in pessimo stato di salute mentale può avere effetti devastanti sull’accesso, qualità e costi all’assistenza sanitaria. Ovvero sulla salute dei pazienti.

Certo i fattori che contribuiscono sono molteplici, ma vorrei soffermarmi sulla gestione dello stress e dei provvedimenti che i datori di lavoro delle Aziende Sanitarie non riescono o non possono o non hanno le risorse per adottare e mettere in pratica. Lo stress contribuisce in modo rilevante allo sviluppo di condizioni patologiche, fisiche e psicosociali, negli esseri umani (“str” esercizio di pressione). Il greco “strangalizein” e il suo derivato inglese e sinonimo “to strangle” (strangolare), analogamente al latino “stringere” (stringere), hanno le loro origini in un passato molto lontano.
I principali sintomi psichici del burnout sono: senso di fallimento o di scarsa autostima, sentirsi senza speranza, intrappolato o sconfitto, sensazioni di distacco dal proprio lavoro, ridotta soddisfazione e senso di compimento e crescita professionale (elemento dimenticato da quelli che badano solo alla “sopravvivenza”o alla pensione: che il lavoro dovrebbe maturare quella che Rogers chiamava pulsione di autorealizzazione), stato di costante tensione e irritabilità e aumento del cinismo (verso sé stesso e verso gli altri).
Come previsto esplicitamente dall’art. 28 del D. Lgs. 81/2008, il datore di lavoro ha l’obbligo di valutare (in un registro chiamato DVR) tutti i rischi, “tra i quali anche quelli collegati allo stress da lavoro correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’08/10/2004”. Questa valutazione si deve fare a cadenze stabilite, ma, semplicemente, nella maggior parte dei contesti socio-sanitari non viene fatta. Di conseguenza non ci sono dati e non sono implementati interventi di supervisione, o comunque mirati a prevenire o gestire il burnout e/o ad incrementare la nostra resilienza. In altre parole stando ai (non) dati in nostro possesso, noi siamo i professionisti più sereni e meno stressati del mondo. Poi però ad esempio un’indagine condotta in 12 Paesi dall’European General Practice Research Network, mostra che gli italiani hanno un livello di stress quasi doppio (il 43%) rispetto alla media dei colleghi europei (22%).

Ci sono paesi dove la cultura del cambiamento porta a cambiare anche ciò che funziona, che va bene. Chi o cosa, da 20 anni, ha reso invece così stagnante la sanità pubblica italiana, dove il cambiamento sembra una chimera?

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