domenica 8 Settembre 2024
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Eutanasia sociale. Un dibattito che non ha mai trovato soluzione

In occasione del suo ultimo romanzo “Il libro della vita. Eutanasia sociale”, Antonia Tosini, scrittrice e scenografa, parla di un problema che fin dai tempi antichi ha attirato i dibattiti più controversi. Liberarsi di un figlio perché portatore di handicap? Questa la domanda su cui riflettere. Una domanda che probabilmente troverà risposta venerdì 26 Ottobre alle ore 17.30 nella Sala della Loggia, Maschio Angioino, nel corso della presentazione del libro.


Con l’accompagnamento musicale di Tony Sorrentino, alcuni stralci del racconto recitati da Enzo Attanasio e Carla Schiavone e la presenza di Davide Capasso, autore del dipinto in copertina, si potrà scoprire un libro diverso. L’autrice non da giudizi morali, non discrimina ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, fa semplicemente riflettere. Riflettere sull’importanza della vita. Come lei stessa dice: “Mi piacciono i bambini, ma, soprattutto il rispetto verso gli altri, verso la vita”.

Ma cos’è l’Eutanasia sociale? Dove affondano le radici di un problema così dibattuto? Riportiamo parte della ricerca condotta dal Professore Andrea Porcarelli, docente di Filosofia.

Nel mondo antico era già presente quella che poi si chiamerà eutanasia sociale, nel senso che la società sopprimeva o abbandonava alla propria sorte persone che potessero risultare un peso per essa. Tale pratica è attestata a Sparta, nel mondo romano, ma anche in culture più arcaiche (come ad esempio tra le popolazioni cannibali dell’isola di Sumatra) e si può agevolmente supporre che i popoli primitivi uccidessero o abbandonassero alla propria sorte tutti coloro che – in condizioni di vita durissime – non apparivano in grado di resistere nella lotta per la sopravvivenza. In Grecia si individuano diverse scuole di pensiero. Anche uno stesso autore esprime giudizi contrastanti sulla problematica. Con Aristotele, tuttavia, il suicidio, o l’omicidio di portatori di handicap, è considerato un’ingiustizia nei confronti della città.

Nel medioevo l’uomo non è padrone della propria vita e non ne può disporre da arbitro assoluto, dunque la società si pone contro l’eutanasia sociale. Tommaso d’Aquino esprime in modo lapidario le tre motivazioni per cui il suicidio è un atto moralmente illecito, sia nell’ottica della legge morale naturale, sia in quella della legge divina positiva:
Il suicidio è assolutamente illecito per tre motivi. Primo, perché per natura ogni essere ama se stesso; e ciò implica la tendenza innata a conservare se stessi e a resistere per quanto è possibile a quanto potrebbe distruggerci. (…) Secondo, perché la parte è essenzialmente qualche cosa del tutto; ora, ciascun uomo è parte della società; e quindi è essenzialmente della collettività. Perciò uccidendosi fa un torto alla società, come insegna il Filosofo. Terzo, la vita è un dono divino, che rimane in potere di colui il quale “fa vivere e fa morire”. Perciò chi priva se stesso della vita pecca contro Dio (…). Infatti a Dio soltanto appartiene il giudizio di vita e di morte, secondo le parole della Scrittura: “Sono io a far morire e a far vivere”.

L’età moderna si presenta con diversi volti e non è possibile ricondurla univocamente ad un unico filone di pensiero. Da un lato prosegue la linea di pensiero che vede nel suicidio un atto immorale e contrario al bene comune della società, dall’altro lato vi sono alcuni pensatori che sviluppano posizioni differenti, come ad esempio David Hume. Posizione nettamente contraria al suicidio è espressa da Immanuel Kant, sulla base di argomentazioni “laiche” che si basano sulla necessità di rispettare quell’ordine morale su cui si fondano tutti i doveri dell’uomo.
Sul versante che più ci interessa, dell’eutanasia in senso stretto, compare anche il termine in modo esplicito ed il suo uso sembra certo che risalga ad uno scritto di Francesco Bacone del 1605.

In età contemporanea, soprattutto nel XX secolo, cresce in genere la domanda eutanasica e l’eutanasia sociale viene praticata in modo più massiccio.
Per affrontare tale tema, possiamo sviluppare in modo più analitico l’esempio paradigmatico della Germania [9], anche prima dell’avvento del regime nazista. Già durante la Grande Guerra si assiste – come in molti altri Paesi – ad un’impennata delle morti dei malati cronici presenti negli ospedali, anche a motivo della scarsità di cibo che rendeva oneroso nutrire tante “bocche inutili”. Nel 1920 viene pubblicato un libro di Alfred Hoche e Karl Binding dal titolo L’autorizzazione all’eliminazione delle vite non più degne di essere vissute, che, secondo gli autori, sono in se stesse luogo di sofferenza e provocano dolori ai parenti e danno economico allo stato. Questo, quale arbitro della distribuzione delle ricchezze, avrebbe dovuto autorizzarne l’uccisione. La motivazione economica, portata all’interno del dibattito tra gli scienziati, non fu certamente sufficiente a motivare un’azione effettiva e sistematica, che invece venne con il progetto eugenetico nazista che collegava la necessità di eutanasia sociale nei confronti di alcune categorie di persone con quella di preservare la purezza della razza ariana. Il primo passo verso l’attuazione del piano eugenetico si ebbe nel 1933 con l’emanazione della “Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie”. La legge venne discussa il 14 luglio. Poiché il 20 luglio si sarebbe dovuto firmare il Concordato tra Chiesa Cattolica e Stato Nazista si ritenne politicamente più opportuno promulgarla ufficialmente il 25 luglio successivo. L’8 ottobre 1935 venne emanata una seconda legge per “La salvaguardia della salute ereditaria del popolo tedesco”. Con essa si autorizzava l’aborto nel caso in cui uno dei genitori fosse affetto da malattie ereditarie. Parallelamente venne varata un’intensa campagna di propaganda mirante a convincere il popolo tedesco dell’opportunità sociale e dell’intrinseca bontà delle pratiche eugenetiche (sterilizzazione ed eutanasia), venne anche creata la “Commissione del Reich per la salute del popolo”, che si dedicò all’organizzazione della propaganda nelle scuole, negli uffici pubblici e nel Partito Nazista. La Direzione Sanitaria del Reich creò in tutta la Germania circa 500 “Centri di consulenza per la protezione del patrimonio genetico e della razza”. I medici che li dirigevano furono incaricati di raccogliere tutti i dati necessari per stimare quale parte della popolazione dovesse essere sterilizzata e controllare le nascite di bambini deformi o psichicamente disabili. Si giunge così alla preparazione prossima dei provvedimenti direttamente eutanasici nei confronti di quei bambini che il “monitoraggio” aveva individuato. A dare inizio al processo di eutanasia fu un ordine scritto di Adolf Hitler retro-datato al 1° settembre 1939 (in realtà emanato in ottobre) su carta intestata della Cancelleria.
Con tale ordine la pratica di eliminazione fisica dei malati gravi e dei minorati psichici trovava la sua “copertura giuridica”, pur essendo già iniziata in modo strisciante da alcuni mesi, nei centri sopra citati. Venne subito creato un centro di coordinamento dell’intera operazione che trovò la sua sede in un villino espropriato ad un ebreo, a Berlino in Tiergartenstrasse n. 4.
Tra il 1940 e il 1941 furono eliminati più di 70.000 malati psichici nei cinque centri di eliminazione, prima che Hitler – a motivo del montare delle proteste dopo che la cosa iniziò ad emergere alla luce del sole – non la sospese nel 1941. In realtà l’azione non fu realmente sospesa, ma semplicemente trasformata in altra azione condotta direttamente dalle SS (da Himmler) in collegamento con le azioni che si svolgevano nei campi di concentramento, che nel frattempo erano stati istituiti ed in cui – assieme alle persone afflitte da varie forme di malattia – vennero soppresse anche persone divenute nel frattempo inabili al lavoro o persone sane di cui si decise la soppressione.
Nell’immediato secondo dopoguerra, essendo venuti alla luce – grazie al processo di Norimberga – i fatti di cui si è detto sopra, si è assistito ad un periodo di relativa cautela nel portare avanti le istanze eutanasiche, anche perché il collegamento con le stragi naziste risultava molto immediato.

Il dibattito sull’eutanasia volontaria, in ogni caso, non si interrompe, ma prosegue con tanto maggiore intensità quanto più i progressi della medicina consentono la sopravvivenza (talora in condizioni fisiche piuttosto precarie) di persone che in altre epoche non sarebbero riuscite a sopravvivere. Soprattutto negli anni 1955-1960 si sviluppano tecniche di rianimazione tali da mettere in discussione anche le precedenti metodiche per l’accertamento della morte, così come si pone il problema dello status dei pazienti in “stato vegetativo persistente” Di fronte a tali nuove sfide riprende slancio l’attività dei movimenti pro-eutanasia, che si sono fatti promotori di iniziative miranti sia a far accettare tale pratica a livello di costume sia, soprattutto, a legalizzarla.

Gabriella Castiello

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