domenica 22 Settembre 2024
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C’erano una volta le appetibili albicocche vesuviane, ora a morderle è solo la crisi

Somma Vesuviana. Si fa presto a dire “albicocca vesuviana”, ma si fa un po’ meno presto a venderla dignitosamente. Così l’annus horribilis della crisommola vesuviana sta scivolando via tra prezzi da fame con pesantissime conseguenze sull’intero comparto agricolo alle falde del Vesuvio. Le ragioni di questo Apocalisse, nel quale un kilo di albicocche è venduto a pochi centesimi, sono varie e fondamentalmente di due tipi: stagionali e strutturali.

Le stagionali riguardano fondamentalmente la qualità del prodotto colpito dalle piogge e dalla grandine di primavera. Questo ha fatto si che esso non rientri nei consumi della grande distribuzione, l’unico vero sbocco commerciale dignitoso e stabile per le crisommole. Inoltre la qualità del prodotto è condizionata dalla sharka, la peste bubbonica che colpisce il genere Prunus e contro la quale, al momento, non ci sono rimedi. A ciò va aggiunta la produzione straordinaria del frutto in tutta Europa che ha portato al ribasso dei prezzi, soprattutto quelli riguardanti il comparto industriale (quello che trasforma il prodotto in marmellate, succhi, essiccati e così via n.d.r.). Ovviamente, in questo ribasso da fame, i più esposti sono proprio i produttori vesuviani.

E qui entrano in gioco i problemi strutturali del contado vesuviano ed in particolare quello legato alle produzioni di albicocche. Innanzitutto bisogna dire che il ceto agricolo ai piedi del Monte Somma si è letteralmente dissolto. Le 50mila tonnellate di prodotto stimate dall’Ente Parco del Vesuvio sono ad appannaggio di pochi “imprenditori agricoli” organizzati e di moltissimi improvvisati che hanno microscopici appezzamenti di terra. In ogni appezzamento poi ci sono diverse qualità, alcune delle quali fuori mercato rispetto alle albicocche del metapontino, della Puglia e dell’Emilia Romagna (per non parlare di Spagna, Turchia, Francia e Grecia che esportano da noi). Un conto in pratica è lavorare dei quantitativi piccoli ed eterogenei, ed un conto è invece tenere tra le mani grosse partite di prodotto, curate in modo omogeneo a raccolto ugualmente omogeneamente.
Il macigno che pesa sul prezzo del prodotto industriale è il fatto che sono fallite diverse imprese che trasformavano le albicocche in prodotti semilavorati. E con meno competitors in campo crescono gli squilibri di un mercato che diventa via via meno libero e concorrenziale e più oligopolistico.
Altro problema grosso sono i terreni. Della frammentazione eccessiva si è detto. A ciò però va aggiunta la scomodità degli stessi “intrappolati” nella conservazione della biodiversità nel Parco Nazionale del Vesuvio. Sono una utopia i terrazzamenti i quali, se fatti in un contesto di regole certe e di non abusi ambientali, potrebbero attirare gli investimenti concreti e ad un lento riavvicinamento soprattutto dei giovani alle terre.
Ai problemi strutturali poi vanno affiancate le incapacità di una classe dirigente che da anni non mette in campo una soluzione seria a questo eterno arrangiarsi vesuviano. Un caso su tutti è quello del marchio Igp (indicazione geografica protetta). Tralasciando il pastrocchio dell’allora ministro per le Politiche Agricole Luca Zaia, è paradossale, e non poco, quello che accade in regione Campania. Basta navigare sul sito ufficiale dell’Ente di Palazzo Santa Lucia (http://www.agricoltura.regione.campania.it/tipici/albicocca.htm) e leggerete che l’albicocca vesuviana è in attesa dell’Igp dal 2004. Basta però un altro clic, sullo stesso sito regionale (http://www.sito.regione.campania.it/AGRICOLTURA/Tipici/indice.htm) e vi renderete conto che la fesseria è servita. Non solo, ma sono tantissimi i siti e gli organi d’informazione che scrivono dell’albicocca vesuviana come prossima ad essere investita del marchio qualitativo. Una bufala in realtà. I politici sulla vicenda sono silenti. Nei convegni e nelle campagne elettorali sembra quasi che l’albicocca rappresenti la rinascita del vesuviano. In realtà non è così. La verità è che nessuno sembra tangere la problematica tanto che ancora non si è sentito, in quest’annata di crisi, un solo politico emettere una sillaba (pensate a Paolo Russo, il deputato mariglianese del Pdl, presidente della XIII commissione Agricoltura). Anzi, ci sono comuni come quello di Somma Vesuviana, ma non solo, che non prevedono nemmeno assessori al ramo. Non solo la politica è colpevolmente silenziosa e probabilmente incapace di indicare una via. Le associazioni di categoria stanno riuscendo a fare anche peggio liquefacendosi più velocemente del sangue di San Gennaro. L’Ente Parco Nazionale del Vesuvio invece è capace solo di annoverare le crisommole tra le eccellenze dei suoi prodotti, senza sapere però che esso, prima di finire sulle tavole degli italiani, va immaginato, curato, raccolto e venduto.

Quale potrebbero essere le soluzioni allora. Innanzitutto bisogna portare la crisommola vesuviana, che ha caratteristiche strutturali e sensoriali uniche rispetto a quelle prodotte in altre zone del mondo, sul mercato. Per farlo però non si può partire dalla foce, ma dalla sorgente. Per cui serve una riforma strutturale del comparto con la quale riorganizzare i terreni, con i terrazzamenti, con strade dignitose e con l’installazione di teli antigrandine a norma. Poi serve riorganizzare le produzioni puntando su prodotti che possono avere appeal presso la grande distribuzione (un esempio potrebbe essere il bio, questa parola aliena ai più). Inoltre c’è bisogno di riportare nelle campagne le persone. Non per sfizio. I tempi del metalmeccanico o dell’impiegato con il moggio di terreno che produce albicocche nel dopolavoro per arrotondare il reddito sono finiti. Bisogna mettere in condizione i soggetti di unirsi in cooperative e di trattare direttamente con le piattaforme di acquisto della grande distribuzione o delle industrie che debbono acquistare in massa un prodotto, per certi versi, eccezionale. Ma è così difficile prendere spunto dal modello della Val di Non e dalla sua Melinda?
Di ciò si parla da oltre un trentennio, ma in realtà poco o nulla è cambiato. Ora la speranza degli agricoltori è tutta centrata sulla famigerata “pellecchiella” che potrebbe mettere una pezza a questa annata maledetta nella quale Roma brucia e Nerone se la canta.

Gaetano Di Matteo

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