lunedì 25 Novembre 2024
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Anniversario Flobert, dal racconto di Nino Leone: ‘Ferita che non rimargina’

Sant’Anastasia. Una giornata triste per la comunità anastasiana, oggi ricorre l’anniversario della terribile tragedia della Flobert, l’11 aprile di 46 anni fa un terribile scoppio all’interno della fabbrica di giocattoli uccise 12 persone. Il dramma non è mai stato dimenticato e oggi lo ricordiamo con una testimonianza scritta che ci ha concesso lo scrittore Nino Leone che quel terribile giorno lo ha vissuto e lo ricorda con tanto dolore ancora nel cuore. Un ricordo “atipico” come lui stesso lo definisce, un ricordo che tocca l’anima di ogni vesuviano. «Ho scritto questo commento a quella tragedia popolare che fu lo scoppio della Flobert nel 1975. Ero giovane, avido di vita e di futuro. Ora che buona parte di quel futuro è diventato passato, posso scremare quello sgomento con la scrittura, con l’emozione che come un’opera di Euripide mi ha fatto compagnia, anche quando non ci pensavo».

“Viernarì, ùnnece aprile, a Sant’Anastasìa…”, due settenari che non hanno bisogno di presentazioni; era una giornata primaverile del 1975, giorno da pasta e piselli nella maggior parte delle case. Di famiglie vesuviane lasciate per andare a lavorare, col sogno in testa della casa per la figlia, per gli ammogliati, della Fiat 127 per gli scapoli. Non saprei dire quanti riuscirono a consumare il pasto, c’erano tutti, quel pomeriggio di fave e piselli pronti, lì a Masseria Romani storditi dall’odore acre di polvere pirica e il pizzico dello zolfanello in gola, in contrasto netto con il bianco dei prugni, immacolato come la veste di una vergine alla prima comunione negli occhi. Era saltata in aria la Flobert’s, una fabbrichetta di giocattoli esplosivi, un monumento all’insicurezza sul lavoro, un delitto dell’arte di arrangiarsi arrangiandosi. Una ferita che il tempo non rimargina e che si rinnova ogni volta che s’incappa nella cronaca di Luigi Necco, reperibile su Youtube. Eravamo giovani e arrabbiati, all’epoca, e tutti sentimentali ma ci toccò questo squarcio d’aprile. Mimmo De Cicco annotò nel suo diario juvenile: “Un boato echeggiò, la terra tremò. Mille case più giù tremarono. Dodici stelle che da poco erano entrate nella grande galassia malvagia perirono. Ora sulla fredda lucida pietra 12 madri piangono ancora”. Sono passati gli anni e poco resta di quella generazione; persiste però l’amaro, come il succo di una radice lungamente masticata. Lo si avverte nel testo che divenne canzone e cover di se stessa per quante versioni ne sono nate: da ultima quella del compianto Pasquale Terracciano, schiana e struggente, come già la avvertimmo nelle voci di Matteo o Marcello o Tonino o Archino… non saprei dire quanti! Dopo tanti anni di quel tragico avvenimento resta la cronaca di una località del Vesuvio dove arde, non un lumicino, ma una fiamma alla memoria di chi si alza per andare al lavoro, ravvivata da un perenne foruncolo di fuoco nel cuori di chi accorse personalmente sul luogo del disastro, come di chi ne ha solo ascoltato il dramma reinventato, cantato! Eppure, oggi mi chiedo, cos’è diventato quel territorio? Si è imparato a guardare al Monte Somma come a una risorsa che non sia il guazzo del Vulcano fumante o il territorio di predazione industriale, come avviene per le aree di pianura? Mi piace pensare che i vesuviani, a partire da quella tragedia, siano ora più in grado di guardare ai propri luoghi cogliendone tutti i possibili colori, riuscendo a frugare persino nei lati in penombra. Certo ci vuole una nuova camera per filmare l’anima dei vesuviani, perché altri Vesuvi ricorrono nei nostri sguardi, nella nostra memoria e non sempre trovano chi li sappia ritrarre col dovuto riguardo. Sembra banale, eppure, basta allungarsi un poco dalla costa, aggirare la gobba di San Sebastiano, lasciarsi scivolare giù per la Parula, la terra verde, l’impasto felice di acque del lento ma inesorabile sgretolarsi dell’Appennino del colloso ammasso di ceneri. Qui il vulcano diventa altro, è semplicemente la Montagna, con la sua forma a M slargata all’imbasso, il monogramma topografico di un’iscrizione classica, lettera d’alfabeto latino antico, cavata dallo scalpello nel marmo bianco, con quelle zampette distanziate che simulano bracci di un ciclopico compasso conficcato tra il mare flegreo a ovest e la corona dei monti irpini a est. Attira la sua mastodontica estensione, arrivando di sera da Capua, lo annota Goethe avvicinandosi all’antica capitale, e non poteva essere diversamente. Le luci dalle alture di San Sebastiano, Massa di Somma, Pollena alle scoscese di San Giuseppe Vesuviano, seminano una scia di luminarie, non ancora una vera Manhattan, ma ci arriverà! Entro cui spicca la biscia notturna che da Somma sale a Castiello, e più in basso il caldo giallognolo campanile con la chiesa di San Francesco Saverio, in Sant’Anastasia. Un faro terrestre verso il monte, un riverbero amico per chi percorre la campagna campana nelle notti estive o in quelle cristalline di vento tramontana. Quella M sta per Montagna o per Mamma, per Madonna mia o Morte… scanzace? È il volto poco truce del vulcano, quello che nasconde il cono e ostenta invece calanchi e orridi puntinati di castagni ontani e robinie. Di garbati cresommeli e ciliegi leggiadri. Ricetto di boleti carnosi, cantarelli gonfi e chiodini callosi. Riparo per Madonne pellegrine, rocche normanne, acquedotti antichi. Tra queste selve scampò Spartacus, il ribelle tracio, estenuandosi a tessere nelle caverne di lava, il filo della rivolta schiavista per darlo a torcere ai Romani. Su per i poggi di rena nera i Longobardi disseminarono il piede dei castelli di pietra viva, dando nomi e volti a tante contrade. Per queste pendici spesero le poche giornate di quiete, malinconiche regine angioine, impavidi re aragonesi. Dalle torri dei castelli, dai merli, dalle colombaie ancora in piedi, continuano a levarsi in volo i colombacci ma non sanno più a chi recapitare le frasi d’amore di monna Lucia o del regale Alfonso il Magnanimo. Spesso le lasciano andare lungo la rotta e quelle si accampano sotto le sembianze di bocche di leone, su per gli intonaci scrostati, dentro una lieve ferita in un muro, sopra un lastrico di lapillo a farsi infilzare dal vento ad aspettare il sussurro di dodici fantasmi che non sanno più trovare la via di casa. Qui allegrano il cuore dell’inverno, le squadre della Zeza e tutt’intorno, le paranze dello Gnundo o della Zabatta intonano i canti â figliole o la fronna di limone. Ancora le pertiche inghirlandate di edera e nastri inventagliati salgono e scendono per i costoni dove alligna l’uva catalanesca. Tra i filari dorati, marciando col passo giusto, di questi tempi la poesia riesce ancora a trovare insperati sentieri. E in certi giorni, sotto le mentite spoglie di un contadino, con più rughe sul volto che solchi sulla groppa del monte, è addirittura possibile incontrare Marziale, il poeta nostrano che si aggirava per le brulle pendici piangendo la dispersa Pompei e noi le nostre tragedia contemporanee. Chi saranno i nostri poeti, i nostri pittori, i registi che lasceranno come traccia non solo orme di piedi, zampe, ungoli o di tragedie dell’incuria e del lavoro repezzato? Intanto, mi piace e mi assumo la responsabilità di racchiudere la Flobert in questa cartolina, poco illustrata, ma intensamente ripassata al mare verde della campagna, quella che racconta il lato oscuro di quello che si dice vita ai piedi del vulcano. Al di là delle lacrime e dell’immutato dolore, bisognerebbe che i vesuviani imbucassero questa cartolina o spedissero una mail, per farla arrivare e conoscere a quante più persone nel mondo».

nino leone
nino leone

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