Alle porte di Pompei, la grande villa suburbana di Civita Giuliana restituisce lo stanzino occupato da schiavi stallieri, forse una piccola famiglia, ancora incredibilmente intatto con tutto il suo corredo di povere cose. Una sorta d’istantanea della fine che l’ANSA ha potuto documentare in anteprima e che accende la luce sulla vita degli ultimi nella ricca colonia romana seppellita dal Vesuvio nel 79 d.C.
“Una scoperta eccezionale, perché davvero è rarissimo che la storia restituisca i particolari di queste vite”, illustra appassionato il direttore del Parco Archeologico Gabriel Zuchtriegel.
Di certo a Pompei siamo abituati al lusso delle stanze affrescate, alla meraviglia dei triclini, all’arte raffinata degli atri e dei giardini. Qui invece, nei pochi metri quadrati di questo locale buio, pochi passi dalla stalla destinata ai superbi sauri del padrone di casa, la cruda realtà delle cose colpisce nella durezza del suo squallore come un pugno allo stomaco. “Dobbiamo ringraziare le particolari dinamiche dell’eruzione, la stanza è rimasta intatta fino all’arrivo dei flussi piroclastici, il portico ha retto, i lapilli si sono fermati prima della soglia”, indica il direttore. Un ambiente miracolosamente integro, quindi, profanato solo dai picconi dei tombaroli che sono passati alla ricerca di altri tesori. I buchi che hanno lasciato nei muri sono la memoria delle ferite inferte alla storia di questa imponente tenuta suburbana prima che la Procura di Torre Annunziata fermasse lo scempio e che si avviassero gli scavi che ora puntano a riportarla alla luce. Anche i letti degli schiavi, ricostruiti con impressionante precisione dai calchi in gesso, portano purtroppo i segni di quel feroce passaggio. “Ma stiamo progettando di integrarne le lacune”, anticipa Zuchtriegel.
Nella stanza le tre brandine sono disposte a ferro di cavallo e hanno misure diverse, la più piccola, non più lunga di un metro e quaranta, destinata a un bambino. L’aspetto è quello di mobili essenziali, semplicissimi, “più che letti brandine”, dice il direttore. Costruiti con ingegno, però, con un sistema di modularità che permetteva di allungare o accorciare il giaciglio, a seconda dell’altezza di chi lo doveva occupare, quasi un modello Ikea degli antichi. Niente materassi, solo una pezza di tessuto stesa su una rete di corde che il calco in gesso ha fatto ritornare alla luce con impressionante precisione. E nulla a che vedere con i letti dei signori, sempre dotati di una tavola e di un morbido materasso. I muri sono spogli, nessun colore a parte una macchia di vernice bianca in alto sotto alla piccola finestra, nel punto dove veniva appesa una lucerna. “Serviva probabilmente ad amplificare il chiarore prodotto dal fuoco”, ipotizza Zuchtriegel. Sotto un letto spunta una sorta di cestino forse per i pochi effetti personali, poi una piccola brocca. Chissà, forse conteneva l’acqua per la notte, forse altro, si scoprirà in laboratorio, spiega l’archeologa Luana Toniolo, “quando verranno analizzate tutte le brocche, le anfore i vasi accatastati anche accanto ai letti per capire cosa contenevano”.
Un discorso a parte meritano i tanti oggetti da lavoro: appoggiato al letto del bambino c’è proprio il grande timone del carro, era di legno ma il calco in gesso ha fatto riemergere su una parte della forcella una vistosa rappezzatura fatta con lo spago. Al centro del locale, invece, una grossa cassa con gli angoli in metallo custodiva i finimenti dei cavalli, avvolti in una pezza di stoffa. Zuchtriegel scuote la testa, questa stanza ripete, “racconta situazioni di disagio, di precarietà che possiamo riconoscere”.
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