Tre uomini si ritrovano in una stanza: il primo, un piccolo proprietario d’industria, sta aspettando nella camera di una pensione una donna per un incontro; il secondo, un militare, crede di trovarsi in un ufficio informatico; il terzo, uno scrittore, arriva per recuperare le stampe del suo libro, pensando di essere nell’ufficio della casa editrice. I tre uomini – giunti da altrettante porte differenti – non si conoscono. Il mistero si infittisce quando sembra che i tre non possano uscire se non dalla porta da cui sono entrati.
Obbligati a passare una notte in quella stanza a causa dell’allarme antismog che impedisce loro di lasciare il locale, cominceranno a interrogarsi su quanto sta accadendo e a dare delle risposte all’enigma che li coinvolge.
Questo lo spunto iniziale di Tre sull’altalena, successo internazionale costruito sul geniale testo di
Luigi Lunari, tradotto in ventiquattro lingue e rappresentato in tutto il mondo.
In scena non ci sono altalene, né vengono mai menzionate. Probabilmente il titolo rimanda alla
situazione di instabilità e di precario equilibrio che i tre personaggi si ritrovano a vivere. La
scenografia consiste, invece, in una sorta di salottino con un divano, un tavolo e tre porte, simbolo
dell’enigma iniziale dello spettacolo e, proseguendo, dello spettacolo stesso.
Esistono solo due colori: il bianco e il nero. Vale lo stesso per i costumi dei protagonisti – nei quali si trova però anche un grigio intermedio. Le poche, ma simboliche, sfumature cromatiche sono esaltate da una piena illuminazione che non lascia mai posto chiaroscuri.
L’equivoco e il dilemma delle tre porte che conducono a diverse vie rappresenta soltanto lo spunto
iniziale di un lungo e ininterrotto dialogo fra i tre personaggi – che li porta a toccare i grandi temi, i
problemi e i misteri dell’umanità: l’importanza del caso nella vita e la sua inspiegabilità, i diversi
punti di vista individuali che rendono differente uno stesso oggetto; ma soprattutto la paura della
morte e la morte stessa; la religione – si interrogano sull’esistenza e sull’identità di Dio; il senso
della vita. Citano Schopenhauer, Shakespeare, la Bibbia – e si scopre un inaspettato legame tra il
testo sacro e la frivola “barca che va” cantata da Orietta Berti. Inventano brillanti aforismi quali
«Dalla vita nessuno esce vivo».
Ma è incredibile come affrontino tutti questi difficili e talvolta drammatici argomenti con allegria, ironia, brio e leggerezza.
Tre sull’altalena è, innanzitutto, uno spettacolo divertente. Permette, però, di affrontare col sorriso
sulle labbra i dilemmi dell’esistenza e i misteri del trascendente. Emblematico è un pssaggio del
dialogo in cui il militare racconta una barzelletta malinconica che parla dell’inutilità dell’uomo nella
vita, della poca differenza tra la sua presenza e la sua assenza, della mancanza di conoscenze e
amicizie. Una scena dove gioia e tristezza coincidono.
La drammaturgia è serrata, il ritmo incalzante e coinvolgente. Gli attori sono a dir poco eccezionali e mostrano una perfetta alchimia.
In Tre sull’altalena c’è tutto: divertimento, riflessione, dialoghi geniali, colpi di scena, sorprese.
Dario Fo parla di questo spettacolo come di «una macchina di fantastica fattura […] una delle
invenzioni teatrali per le quali vale la pena di uscire la sera a Milano, sobbarcarsi il rito della
vestizione, prenotare il biglietto, prendere il taxi, starsene seduti in una sala stipata di gente».
Ha pienamente ragione: meglio uscire dalla porta (di casa).
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