Per intimidire le vittime le cosche si basavano soprattutto sulla loro terribile fama: decenni di attentati dinamitardi, sparatorie e omicidi. Ma almeno in un caso si tentò di convincere un imprenditore a pagare usando l’amore per uno dei suoi giovani figli. Fu il clan Russo, quello sicuramente più sanguinario dei tre coinvolti nelle indagini compiute dai carabinieri di Castello di Cisterna, almeno negli ultimi anni fino all’arresto dei due storici capoclan latitanti dal 1993 al 2009. I Russo avevano architettato il rapimento di un giovane adolescente sventato grazie alle indagini compiute dalla polizia del commissariato di Nola. Indagando su altri eventi intimidatori, gli agenti avevano ottenuto importanti informazioni che hanno permesso di sventare praticamente sul nascere l’intento malavitoso. Grazie, dunque, alle informazioni acquisite dalla polizia il giovane non fu rapito, il padre (un ricco imprenditore nolano) non aveva ancora ricevuto nessuna minaccia, ma i capi della cosca pensavano che in questo modo si sarebbe piegato a pagare senza obiettare anche cifre altissime. Cifre altissime appunto, che commercianti e costruttori versavano nelle casse delle tre cosce (Russo, Nino e Fabbrocino) senza potersi neanche opporre considerato il clima di terrore che per oltre 15 anni i gruppi camorristici avevano instaurato nell’area nolana. Per far capire come i fratelli Russo si sentissero potenti ed intoccabili basta considerare uno degli episodi emersi nell’inchiesta che ha portato alle 14 ordinanze di custodia cautelare in carcere notificate ieri dai militari del capitano Michele Meola. I carabinieri hanno, infatti, accertato che un imprenditore “reticente” fu portato da alcuni esponenti del clan al cospetto del boss latitante Pasquale Russo. L’uomo allora era inserito nell’elenco dei 10 ricercati più pericolosi d’Italia eppure da una località segreta continuava a gestire gli affari di famiglia, tanto che era lui, come hanno accertato i militari, a decidere le tariffe da applicare e gli imprenditori da soggiogare. Quella visita forzata convinse l’imprenditore a cedere ai ricatti della cosca. Una lunga catene di sofferenze e ingiustizia interrotta dal duro e fruttuoso lavoro di carabinieri e magistrati.

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