MAR.PE.BI.AN, ovvero la sigla di una regia fatta ‘in casa’ per marcare la propria impronta ad un’opera teatrale ampiamente rappresentata, e farne un vero e proprio debutto. Una rivisitazione de ‘il settimo si riposò’ di Samy Fayad, che ha conferito alla recita stille di personalità dissimili, di attori che del teatro ne respirano il profondo significato anche in chiave soggettiva. Ed è da questo innovativo intento che la celeberrima commedia rappresentata all‘Umberto’ di Nola ha assunto una fisionomia alquanto originale, consentendo a ciascun artista la possibilità di cucirsi addosso il relativo personaggio a propria immagine e somiglianza, espediente molto apprezzato dal ‘pubblico delle grandi occasioni’ affluito numerosissimo presso la prestigiosa struttura nolana.
Ed è così che la Bina/suocera arricchisce la scena con una varietà recitativa che alla fine, se strettamente interpretata come da copione, non avrebbe dato quel senso di completezza che la stessa ha conferito al personaggio poliedrico, per dover assurgere al ruolo di suocera, ma anche di madre, nonna, donna alla quale schizza ancora l’ormone e perfino di sdolcinata corteggiatrice del latitante Capurro, che piomba in casa del disadattato Orefice, per delinearne situazioni tragicomiche, ossatura dell’intero contesto teatrale.
Quel Capurro al quale Andrea Russo si identifica facendo sfoggio al classico realismo tutto partenopeo che lo porta a configurare il goffo pregiudicato che va per mettere paura, ma finisce col dito ammaccato del piede dall’unghia ‘incarnata’, prima di essere condotto in gattabuia a seguito di una serie di situazioni paradossali ed un involontario scambio di ‘tubetti’ operato dal ‘malato immaginario’ Pinky Pinky, che si trascina addosso una ‘farmacia ambulante’ nelle innumerevoli tasche di una giacca/contenitore.
Stiamo chiamando in causa l’originalissima forma espressiva di Luigi Pedone, che in una sorta di ‘miagolii artistici’ altamente significativi, scuce risate in quantità industriale suscitando immensa tenerezza nel ricalcare una vena interpretativa che gli si stampa addosso intrisa di tipica singolarità, che lo farebbe riconoscere anche ad occhi chiusi. E questo va a suo vanto senza il bisogno di dover scomodare qualche ‘grande’ che ormai affolla i libri di questa nobile arte. Teniamolo ancora coi piedi per terra, anche perché, leggerino com’è, non ci metterebbe troppo a volatilizzarsi!
‘Terrena’, invece, è l’efficace performance delle colonne portanti dello spettacolo, quali Ciringiò/Don … Don … Don … e l’asettico Arienzo/Orefice. Il primo ‘atterra’ basando la propria interpretazione sulla furba ingenuità del tutto spontanea, oseremmo dire casuale, sviscerata con mimica particolarmente azzeccata e con timbro vocale che non lascia adito ad indugi di sorta, al più ‘abusato’ stereotipo della commedia napoletana: il ruolo del sempliciotto che si ritaglia uno spazio importante nello scorrere degli eventi per suscitare inesorabilmente il buonumore della platea, incuriosendo e appassionando lo spettatore … e non solo per la balbuzie che viene e che va! Una comicità sfavillante che tiene costantemente alto il ritmo recitativo che sfocia spesso e volentieri nel paradosso. Insomma l’abilità scenica personificata con consapevolezza assoluta nei propri mezzi!
Non da meno è quel Mario/Orefice, che va a cercarsi la propria disperazione in quella rabbiosa invidia rivolta al fantomatico dirimpettaio, quel Camporeale a cui tutte le fortune sono dovute, nonostante percepisca il suo stesso stipendio! L’Arienzo ci fa toccare con mano l’insofferenza che rovina l’esistenza al suo ‘alter ego’ teatrale, provata quando intrufola l’occhio destro in quel cannocchiale comprato apposta per scorgerne le mosse e, conseguentemente, per riempire l’odiato intestatario del suo disagio esistenziale, di invettive al telefono, inconsapevole di fare male soltanto a se stesso! Di contro lo scopriamo ancora in grado di apparire vero, umano, attendibile, finalmente liberato da invidie e gelosie che non avrebbero modo di essere, dopo la ‘doccia fredda’ inflittagli in manicomio, per aver disorientato il ‘maresciallo’ esibendosi in cose da pazzi dovute alla sua ‘instabilità’! Un equivoco chiarificatore che, per assurdo, rimette le cose a posto e riporta ognuno nel proprio ambito quando finalmente don Antonio Orefice si scrolla di dosso ogni fissazione e decide di essere se stesso e vivere la propria vita in ottica positiva e non in prerogativa di altri, nella fattispecie di quel Camporeale, causa di tutti i suoi ‘mali’. Anzi, dirò di più! Dopo aver visto l’Arienzo impersonare l’articolato ruolo, appare difficile configurarci un altro al posto suo, che ne possa assumere l’intrinseca postura.
A ritagliarsi uno spazio dinamico nella recita, troviamo, poi, la figlia/nipote/fidanzata Tronci, che scopriamo delicata, amorevole, apprensiva, sarcastica … a secondo di quello che richiede il personaggio di Teresa che Maura interpreta con decisione, accompagnando il suo delizioso recitare con sguardi, movenze, andamenti stilistici semplici ma efficaci. In ogni caso, comunque, un bel vedere in quel rosso sfavillante del suo vestito di scena!
Per chiudere in ‘bellezza’, poi, non ci resta che riservare le congetture finali alla Tilly versione intellettuale procace, sexy, affascinante … chiamata a portare in scena una simpatica scimmiottatura della sua professione quotidiana di giornalista – nel caso ‘inviata molto speciale’ – dalle tipiche reminiscenze di un ‘bagaglino’ di casa nostra, ad uso alquanto privè! Oh Tilly, chi l’avrebbe mai detto che in due simpatici sketch avresti fatto schizzare l’audience’, intesa quale massima forma di ‘attenzione’.
E un bravo va anche a te, ‘maresciallo’ … che in un inconsapevole batter d’occhio, tra una ‘quiqquera’ e l’altra, hai mandato l’Orefice in manicomio ed il Capurro dietro le sbarre … superando ogni ‘empasse’ anche alla faccia di Camporeale! Sbrogliando – perdonaci – involontariamente tutti gli enigmi racchiusi in una funambolica trama ben orchestrata. E, infine, portato tutti sulla retta via!
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