«La mia prima aggressione l’ho vissuta quando avevo 39 anni. Ero al pronto soccorso, all’improvviso mi trovai coinvolta in una rissa scoppiata tra i familiari di un paziente deceduto e la polizia. Un collega più anziano mi si parò davanti per proteggermi. Nonostante questo, qualcuno mi scagliò contro un monitor di computer. Ricordo molto bene quel giorno, lo sgomento e la paura». A parlare è la dottoressa Maria Carmela Corbisiero, uno dei camici bianchi chiamati dall’Ordine dei Medici di Napoli a condividere la propria esperienza nell’imminenza della Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari. Per la dottoressa Corbisiero quella non è stata la sola aggressione, anni dopo è stata presa a schiaffi dal figlio di una paziente che stava visitando. «Si trattava di un accesso improprio. Nonostante tutto, stavo cercando di approfondire la sintomatologia lamentata dalla donna. All’improvviso mi trovai addosso il figlio che con violenza mi colpiva sulla nuca. Lo denunciai immediatamente». Oggi all’ospedale Pellegrini della Pignasecca è tornato ad esserci un drappello di polizia, anche se in molti ritengono che la presenza degli agenti dovrebbe essere costante. Del resto, la violenza sui medici è ormai una piaga, un problema tanto presente da rischiare di compromettere la salute degli stessi cittadini. Tra gli ultimi episodi quello occorso ad un medico di famiglia e qualche giorno prima al ginecologo della clinica ostetrica della Vanvitelli di Napoli. «Questa non è rabbia, né reazione alla sanità che non funziona – dice il presidente Bruno Zuccarelli – è addirittura premeditazione. Arrivati a questi livelli vuol dire che la gente aggredisce ed è violenta in modo premeditato. Servono leggi severe, ma anche un processo di educazione che parta dalle scuole». Il grido dei medici è “io non ce la faccio più”, e l’Ordine ha intenzione di rilanciare con forza questo monito. «Ogni giorno sette medici si dimettono dal servizio sanitario nazionale. Un medico che ha paura non può lavorare al meglio. I cittadini dovrebbero capire che in queste condizioni è a rischio la salute degli stessi assistiti». Zuccarelli chiede che nei pronto soccorso più a rischio sia garantita la sicurezza che viene garantita nei tribunali o negli aeroporti e che allo stesso tempo si faccia molto di più sotto il profilo dell’informazione. «Le persone per bene sono la maggior parte nella nostra città – conclude Zuccarelli – non possiamo accettare che per gli atti di pochi che hanno atteggiamenti camorristici paghino tutti».
Così, all’Auditorium dell’Ordine dei Medici è stata organizzata una mattinata di incontro e confronto tra medici, cittadini e ragazzi. Diverse le testimonianze di aggressioni portate agli studenti di cinque licei di Napoli: convitto Nazionale Vittorio Emanuele, istituto tecnico Fermi e i licei Pansini, Genovesi e Vico.
Ancora molto controversa è la questione che riguarda il riconoscimento dello status di pubblico ufficiale per i medici in servizio. Per la vicepresidente del Senato Maria Domenica Castellone «il riconoscimento di pubblico ufficiale prevede per i medici, oltre alle tutele, anche diversi oneri. Sarebbe assurdo gravare con altri oneri gli operatori sanitari. Nel 2020 abbiamo approvato una legge per le aggressioni al personale sanitario e grazie ad un emendamento a mia firma abbiamo fatto in modo che ci fosse la procedibilità d’ufficio». Nel corso della mattinata, tanti i messaggi lanciati ai giovani studenti.
Tra gli altri, quello del direttore dell’Ufficio Scolastico Regione, Ettore Acerra: «La violenza non può essere accettata come normalità. Stiamo lavorando molto sulle relazioni, sul significato della parola e degli atti violenti. Noi come ufficio scolastico regionale crediamo molto nella collaborazione con altri enti. Onore all’Ordine dei Medici per essere riusciti a coinvolgere tanti ragazzi delle scuole, questa è un’iniziativa importantissima».
TESTIMONIANZE
Nel corso della mattinata sono state quattro le testimonianze proposte ai giovani studenti e ai presenti nell’auditorium dell’Ordine.
Raffaella De Franchis: «Mi puntarono una pistola alla tempia»
«In quegli anni ero una giovane dottoressa che si affacciava con entusiasmo alla professione», racconta la pediatra di famiglia Raffaella De Franchis. «Facevo studio a Giugliano, una sera entrarono due uomini che, pistola in pugno, mi rapinarono. Forse credevano che il mio fosse un ambulatorio privato, pensavano di poter incassare un bel bottino. Ricordo ancora il terrore di quei momenti, mi puntarono la pistola alla tempia e mi dissero di consegnare ciò che avevo. Ovviamente, feci denuncia alle forze dell’ordine. Qualche giorno dopo, alla fine di una giornata di visite molto intensa, un uomo bussò dicendo di essere il papà di un bimbo. Quando aprii la porta si aggiunse un suo complice mi ritrovai nuovamente con un’arma puntata. Mi ritrovai nuovamente a vivere quella paura, un senso di rabbia e frustrazione che non ho mai potuto dimenticare. Per circa 15 giorni ebbi un agente di polizia con me durante le visite, poi fui costretta a cambiare studio. Quello è stato un periodo della mia vita che mi ha segnata molto».
Alfredo Scarpa: «Disse a mia moglie: so dove abitate»
Anche nel racconto di Alfredo Scarpa, medico di famiglia oggi in pensione, c’è un vissuto carico di ansie e preoccupazioni. «Nel mio ambulatorio, in via Foria, circa tre anni fa si presentò un paziente che aveva cercato più volte certificati di assenza dal lavoro. Inizialmente feci di tutto per capire l’origine di questa lombosciatalgia che lamentava. Prescrissi diversi esami, che però risultarono tutti negativi. Gli chiesi allora di tornare dopo qualche giorno con la certificazione di uno specialista che dicesse più di quanto io non riuscissi a vedere. Sapevo che non sarebbe tornato, perché era chiaro a quel punto che la patologia era solo un pretesto. Mi sbagliavo. Non sul fatto che fosse un pretesto, ma sul fatto che non sarebbe più tornato. Quel paziente tornò a studio e al mio diniego mi aggredì. Mi scagliò addosso il mio stesso computer e solo l’intervento di altre persone che erano in attesa mi salvò dal peggio. Ricordo che una sera, pochi giorni dopo, suonarono al citofono di casa. Rispose mia moglie. La voce al portone le disse qualcosa che la fece impallidire. Poi mi raccontò che si trattava di minacce: “dite al medico che sappiamo dove abitate”. Fortunatamente riuscii a far ragionare quell’uomo, anche grazie all’intervento di un suo stesso parente. Ma non dimenticherò mai quei giorni terribili».
Ornella Laghezza: «Il marito con una pistola in mano continuava a dirci “se succede qualcosa a mia moglie…».
Il ricordo ancora molto vivo nella mente della dottoressa Ornella Laghezza è quello di un intervento a bordo dell’ambulanza del 118. «Eravamo stati contattati per un dolore toracico, una crisi ipertensiva e aumento della frequenza cardiaca. Un codice rosso. Al nostro arrivo facemmo quanto necessario da protocollo, ma nel visitare la paziente il marito incominciò a mostrarsi molto agitato. Con un cenno feci capire all’autista dell’ambulanza di allertare le forze dell’ordine. Gli agenti arrivarono in pochi minuti, ma furono attimi molto complicati. Restammo per un tempo che ci sembrò eterno a monitorare i parametri della donna con il marito evidentemente agitato. Con una pistola in mano continuava a dirci “se succede qualcosa a mia moglie…».
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